Il lavoro di Maria Candeo prende le mosse da una visionarietà che è visione, ossia di un occhio che si alza dai confini per cercare un punto di osservazione lontano, in una sorta di lontananza che tuttavia permette un lettura chiara ed estesa della nostra realtà. Il mondo si astrae, diventa mappa, segno, circostanza sconfinata, e lì comunque la vita brulica e continua con le sue dinamiche quotidiane. A osservare questi lavori viene in mente il programma estetico e poetico di Mario Giacomelli, coi suoi paesaggi estesi e astratti.
Che percorso ti ha condotta a realizzare questa nuova serie?
Iniziando ad analizzare il paesaggio, dalla cucina, dal giardino del mio studio, continuavo a cercare una visione sempre più estesa. Non riuscivo ad affrontare questi paesaggi, unire i puntini, ottenerne una visione d’insieme tale che potesse avere un senso. Solo il continuare a raffigurarmi i ricordi dei panorami delle nostre gite in montagna, guardando giù dalla vetta, sembrava suggerirmi qualcosa. Il paesaggio che mi crea una forte emozione non è quello dell’osservazione romantica, l’idillio del boschetto, per intenderci. Un flusso emozionale forte lo avverto invece osservando il paesaggio dall’alto.
Sento la stessa emozione guardando una pozzanghera ghiacciata, sotto la cui superficie appaiono sassi ed erbe inglobate alla materia solidificata. Se resto “bassa”, dentro al paesaggio, se ne sono immersa, non riesco a osservare e a vedere le cose con oggettività. Lo stesso mi accade nella vita di tutti i giorni, se sono immersa nel flusso quotidiano non riesco a guardare l’insieme delle cose con obiettività, a distinguere nettamente gli accadimenti.
Facciamo un passo indietro; come nascono nello specifico le tue opere?
La fase della ricerca delle immagini dai satelliti o dai droni è una caccia infinita. Le lascio decantare a lungo e i frammenti che si depositano nella mia mente li accompagno alle mie immagini personali dall’alto: quelle cioè che mi stampo nella memoria mentre cammino guardando in basso. Mi riferisco alle buche, crepe del 17 terreno, zolle, ghiaia, solchi, tutti segni che poi in realtà si possono ritrovare nel macro, osservando la terra dall’orbita geostazionaria. La mia mente di fatto si trova a unire varie immagini in una sorta di dissolvenza cinematografica.
Quindi preparo i miei bozzetti partendo dal segno o da un’idea già chiara del paesaggio per poi lasciarmi plasmare o rapire dalla pittura, che mi porta altrove. L’assecondo in un turbinio di ragionamenti a calibrare il valore dei colori. Mi perdo nell’alchimia della pittura, per continuare il lavoro con un’immagine trasformata radicalmente rispetto alla prima che mi era comparsa davanti agli occhi.
Molti dei tuoi quadri rimandano nel titolo a una indicazione di terre lontane, spesso territori di guerra, come mai?
Ero rimasta colpita da un lavoro che il mio compagno giornalista stava facendo dopo una serie di reportage dall’Afghanistan, dove i droni, i Predator in particolare, hanno un ruolo determinante. Le immagini mostrano operazioni di combattimento, osservazione dall’alto delle strade, dei campi, delle città, degli snodi principali.
Univano la forza e l’invasività dell’attività di natura bellica ai segni alla fine preponderanti della vita dell’uomo di ogni giorno, le sue attività, le erosioni della natura, i disastri del tempo e dell’incuria. Come molte attività ormai date per scontate, e importanti nell’uso civile, anche le immagini dai droni e dai satelliti nascono per scopi militari. I segni, le cicatrici più nette sul nostro pianeta nascono proprio per questo, oltre che da ragioni economiche.
Benché questi scenari siano luoghi di morte e dolore tu non fai parola di tutto questo, anzi – se non si leggesse il titolo – si potrebbe pensare che siano territori pacifici, come potrebbe essere sorvolare le campagne toscane…
Il mio è un monito a continuare a osservare la natura,la terra meravigliosa che quotidianamente calpestiamo senza accorgerci del fiore che sta sotto le suole.
Ovunque ci sia dolore c’è anche lo spazio per cercare, pur se con grande fatica, barlumi di bellezza. Il dubbio è che nella nostra era, quella dell’Antropocene, l’uomo stia incidendo sul pianeta anche in senso geologico, ossia in modo difficilmente reversibile. I titoli sono il mio modo di ancorarmi a questa realtà. Forse però sei anche tu ormai assuefatto alle trasformazioni del Pianeta, e vedi prevalere visioni da “campagne toscane” anche quando c’è una desertificazione in corso. E, a proposito, se osservi le campagne appenniniche, puoi facilmente vederne anche le zolle disseccate, i calanchi, i “cretti”.
Nelle acqueforti il paesaggio diventa ancora più duro, estremizzato, mentre nei lavori dipinti si addolcisce.
Con i dipinti l’immagine, la rappresentazione, è quella di un organismo pieno di contraddizioni, con la superficie come l’epidermide, i suoi colori, con gli organi in funzione. L’incisione è spietata, è come una radiografia: emergono le ossa, la struttura, si va in profondità, senza sconti, senza “dettagli” come i colori a sfumare la visione. È un lavoro di scavo. E quando si scava si toccano subito le fondamenta.
Quali sono queste fondamenta, queste ferite?
Sono la nuova struttura geomorfologica, l’imprinting che ha dato l’uomo alla Terra, secondo la sua volontà e assecondando i propri desideri. Sono segni indelebili che marchiano il suolo con un senso di possesso e lapresunzione di poter continuare a chiedere e a pretendere.
Molto interessanti sono i monotipi, che sembrano la congiuntura fra le incisioni e i dipinti, questi come li realizzi?
Il monotipo è effettivamente un anello di congiunzione tra l’incisione e le pittura. Il primo gesto è proprio come nelle incisioni, inchiostrare la carta, facendo già un abbozzo pittorico del paesaggio che voglio rappresentare, sovrapponendo poi un’altra carta. È a questo punto che tra i due supporti si realizza un’osmosi di materia, da un lato, e di sottrazione dall’altro. Il processo tecnico si trasforma in poetico e alla riapertura il paesaggio si mostra nuovo, una nuova terra in cui posso, di fatto, applicare altri segni, farne una sorta di land art nel dipinto stesso, in un gioco di richiami infinito
Oggi coi satelliti possiamo spiare il nostro vicino di casa, guardare nel suo giardino, avvicinarci per curiosare fra le strade della città, tu invece scegli di allargare il campo visivo perché?
Ho sempre vissuto in una casa senza tende, “entra più luce” – diceva mia madre. Per questo ho l’abitudine di non guardare dentro alle finestre altrui, per pudore e rispetto, come fanno gli olandesi per le loro case con le tende aperte, forse anche per la loro forma mentis calvinista del “non aver nulla da nascondere”. Lo stesso mi capita di riflesso nei miei paesaggi. Nella visione d’insieme identifichi una società invece di un singolo, un intero paese invece che una casa, e così, forse, riesci a capire dove stia andando il mondo.
E dove stiamo andando?
Sempre più lontano dalla visione di bellezza e purezza, un po’ come l’arte. Ci stiamo allontanando come se fossimo in un razzo dalla nostra casa, dalla nostra terra, dalla nostra nazione, dal globo terrestre, per arrivare dove, non avendo più la forza di lottare ci sentiremo finalmente in pace e ci faremo cullare dall’assenza di gravità.
Il punto di osservazione è talmente alto nei tuoi lavori da far scomparire la figura umana, come mai?
L’essere umano in realtà è presente nei segni, nei cambiamenti, nelle trasformazioni del territorio. Quindi non c’è direttamente la figura umana ma le tracce di ciò che l’uomo ha prodotto. È l’Antropocene. Dove le sorti sono sicuramente progressive, ma non sappiamo quanto siano magnifiche.
Dove ti sta portando questa ricerca, vedi il germe di qualche nuovo approdo o è un ciclo che deve ancora svilupparsi?
Ogni volta che inizio un nuovo lavoro penso che sia l’ultimo della mia ricerca. Questo mi capita da circa due anni, ossia da quando ho cominciato.